Fra le regioni d'Italia l'Abruzzo è probabilmente quella che mantiene viva
un'arte culinaria che più assomiglia al suo passato indipendente dalle
dominazioni e che, anche nei suoi prodotti più caratteristici meglio custodisce
le tradizioni, i riti, i misteri e le magie della sua cultura. La ragione è, se
così si può dire, orografica: deriva dall'asperità delle catene montuose che da
sempre separano la terra del grande poeta latino Ovidio, ancora tanto presente
nella cultura abruzzese, dal mondo circostante. L'intensità con cui è stata
sentita e vissuta (e in parte lo è ancora) la tradizione di magia e di
superstizione, di maledizioni e di sensuale panteismo sono espressi benissimo
nelle pagine di Gabriele D'Annunzio, per certi versi cittadino del mondo e per
altri interprete della cultura più profonda e oscura della sua terra d'Abruzzo.
Citiamo in particolare il più popolare dei drammi dannunziani, La figlia di
Jorio (1904), dove la protagonista, Mila di Codro, per voce pubblica maliarda e
malafemmina, sfugge ai mietitori imbestialiti rifugiandosi nella casa di Lazaro
di Rojo, che per lei è stato ferito da un rivale. Aligi, figlio di Lazaro, la
protegge perché ha scorto alle sue spalle l'angelo custode piangente e va con
lei sulla montagna, rispettandola. Ma sopraggiunge Lazaro che cerca Mila e Aligi
l'uccide. Al parricida spetterebbe una pena atroce, ma Mila si assume la
responsabilità del delitto e affronta impavida la morte. Un dramma che non ha
tempo e che pertanto rappresenta bene l'antica anima che vibra in questa terra.
Certo oggi con la costruzione delle autostrade e il miglioramento di tutte le
comunicazioni l'isolamento millenario della regione è finito: ma le
consuetudini, le memorie e la cultura degli abruzzesi sono ancora vive e
riconoscibili, sopravvissute all'industrializzazione e al turismo di massa. Se
ne vede traccia nei riti religiosi o laici che affollano il calendario delle
città e dei borghi, nella sopravvivenza tenace dei mille dialetti in uso a
dispetto dell'omogeneizzazione televisiva, nella conservazione delle abitudini
alimentari riscontrabile non solo a tavola ma nelle fattorie, nei caseifici e
nei laboratori artigianali, dove si mettono a punto le materie prime destinate a
diventare protagoniste della mensa. Seppure con inevitabili aggiornamenti, molte
delle ricette in uso derivano dalle esperienze delle generazioni passate, mentre
le modalità di preparazione e di conservazione dei cibi restano, a livello
familiare, sostanzialmente fedeli alla tradizione. La cucina abruzzese dalla
ritardata rottura dell'isolamento ha tratto certamente un beneficio degno di
apprezzamento e ci riferiamo alla genuinità degli ingredienti e di tutti i
prodotti tipici, garantita, meglio che altrove, dall'Adriatico da un lato e dal
Gran Sasso dall'altro. All'origine erano ingredienti poveri. Per molti
secoli l'economia della regione ha consentito a fatica la sopravvivenza: né
l'agricoltura, poco remunerativa sull'Appennino più alto, né la pastorizia
(attività cantata dal Vate, «Pastori è tempo di migrare») davano benessere.
D'altra parte la composizione sociale della popolazione abruzzese è stata per
molti secoli di estrazione modestissima sia dal punto di vista economico che
culturale. Non grandi famiglie stanziali, non castelli con sontuosi banchetti,
non tradizioni auliche, tanto che nei più famosi trattati che secolo dopo secolo
tracciano la storia della cucina italiana, la gastronomia abruzzese, come quella
molisana, non compaiono; esempio unico di assenza derivante certo dal fatto che
la cucina di queste regioni non aveva avuto modo di valicarne i confini.
L'abitudine della gente d'Abruzzo di festeggiare le occasioni solenni con quegli
interminabili pranzi che si chiamano panarde nacque dalla miseria: i contadini
abruzzesi si risarcivano con essi di digiuni a lungo protratti. Un pranzo di
nozze rispettabile non poteva avere meno di venti portate: il pranzo
tradizionale offerto all'ospite di riguardo, poteva arrivare a trenta e chi non
resisteva a tanta opulenza dichiarando forfait davanti all'ennesimo piatto,
rischiava di offendere irrimediabilmente chi aveva organizzato la pantagruelica
imbandigione. Le cose sono assai cambiate negli ultimi tempi: ammessi alla
tavola del benessere, ma gli abruzzesi hanno aggiunto alle loro virtù anche
quella, invocata dall'altro grande scrittore di questa terra, Ignazio Silone, di
nutrirsi con parsimonia. Le panarde si organizzano ormai solo a scopi di
folclore, come altrove le corse dei ceri e le giostre del Saracino. Rimane
invece la grande tradizione di una serie di prodotti caratteristici che
appartengono alla storia e alla cultura della regione, dalla quale del resto
sono venute stirpi illustri di cuochi che hanno portato nel mondo la loro arte:
sui transatlantici, negli alberghi di lusso, nelle grandi famiglie, questi
«creativi» erano garanzia di precisione e di estro. Così i ristoranti abruzzesi
in città come Roma e Milano si sono conquistati un posto sicuro: la loro formula
quasi sempre a menù chiuso (tante portate, un poco di tutte) ha conquistato il
gusto del pubblico con i sapori piccanti e genuini, la ricchezza degli
«accessori» (dolci, liquori, digestivi). Naturalmente, oggi i piatti proposti
fuori della regione a una clientela più cittadina e non strettamente locale
hanno perso in parte la forza e l'aggressività originarie: il peperoncino, per
esempio, presenza costante in tutte le ricette abruzzesi, viene usato con mano
leggera. Tradizionalmente invece è un protagonista fin troppo aggressivo della
cucina abruzzese che trova molti momenti di esaltazione nelle sagre
gastronomiche. Esemplare è a questo riguardo la sagra dei cuochi della Val di
Sangro, che
la seconda domenica di ottobre riunisce a Villa Santa Maria i cittadini dediti
all'arte dei fornelli in ogni parte del mondo; ristoranti di grande prestigio
espongono in appositi stand allineati sulla via principale le prelibatezze dei
loro rispettivi menù. Sagre dedicate ai prodotti tipici della regione si
svolgono un po' ovunque: Vittorio, nella Valle Peligna, dedica la sua sagra
all'uva e al vino. La data, mobile, è una domenica di ottobre. Pollutri,
popoloso borgo della provincia di Chieti, mette in programma il 5 e il 6
dicembre un'antica sagra delle fave: nove grandi caldaie ricolme di quel
pregevole legume bollono per tutta la notte nelle vie del paese. In provincia di
Pescara, Raiano celebra la prima domenica di giugno il prodotto che sostiene
l'economia locale, le ciliegie; Carsoli, al confine tra Abruzzo e Lazio, fa
altrettanto con le castagne la prima domenica di ottobre; Capistrello, nella
Marsica, ha una sagra estiva dedicata alle fragole; Macchia da Sole, luogo di
latte e di pastori nella provincia di Teramo, intitola la sua al formaggio
pecorino; Basciano, stessa provincia, riunisce folle di visitatori la seconda
domenica di agosto in nome del suo prosciutto. Singolare appare, per restare nel
Teramano, la dedica della sagra in calendario a settembre ad Arsita: si
festeggia il coatto, un piatto tipico che si prepara facendo bollire per molte
ore un cosciotto di pecora. Ma il repertorio degli alimenti onorati da sagre
apposite è ancora lungo: comprende la ciambella (Goriano Sicoli), il gambero con
la trota (Popoli), il vino (Miglianico e Succiano), i ceci (Navelli), il
castrato (San Vincenzo Valle Roveto), la porchetta (Fresagrandinaria), le sagne
a tacconi (Roio del Sangro), lo spiedino (Montereale e Martinsicuro), la
cicerchia (Castelvecchio Carvisio), il pesce azzurro (Giulianova) e il miele
(Tornareccio). Lo zafferano è un aroma vegetale che ha in Abruzzo la sua
culla italiana ma stranamente non viene affatto impiegato dalla culinaria
locale. Nella provincia dell'Aquila si produce zafferano di qualità pregiata,
dall'aroma spiccatissimo, che viene esportato perché non potrebbe essere usato
allo stato naturale e viene raffinato e tagliato con altri di minor pregio. In
Abruzzo mancano gli stabilimenti adatti a questa lavorazione, così lo zafferano
originario dei monti abruzzesi va a insaporire risotti milanesi, paelle spagnole
e bouillabaisses francesi. L'unico piatto locale in cui lo zafferano viene
utilizzato è lo «scapece» di Vasto, una marinata di pesce tagliato a pezzi e
fritto che si conserva in speciali mastelletti di legno tramandati nelle
famiglie di generazione in generazione. La ricetta più famosa della cucina
d'Abruzzo è una pastasciutta, naturalmente fatta in casa, che si prepara con un
arnese, anzi uno "strumento": la chitarra. Il nome deriva dal fatto che si
tratta di un vero e proprio strumento a corde: un telaio rettangolare di legno
di faggio forgiato da artigiani che vi tendono, alla distanza di un millimetro
l'uno dall'altro, dei sottilissimi fili d'acciaio. L'impasto di uova e farina,
lavorato lungamente, viene ridotto in sfoglie che si chiamano «pèttole», e che
vengono una alla volta messe sulla chitarra. Passandovi sopra col matterello, i
fili della chitarra tagliano la pasta a striscioline dalla tipica sezione
quadrata che conservano l'antico nome di «maccheroni», la dizione autentica è
infatti «maccheroni alla chitarra». Duri, elastici, di un bel colore dorato e
resistentissimi alla cottura, ecco i maccheroni pronti a ricevere il condimento
più tipico: un sugo di pomodoro assai denso e reso robusto da pancetta
affumicata, pecorino piccante grattugiato e dall'immancabile peperoncino.
Condimento alternativo è il ragù di carne di agnello e di maiale. Altre
tradizionali paste abruzzesi sono i «maccheroni al ceppo» e quelli «alla
molinara», detti anche «strangolapreti», che si preparano con una tecnica
precisa, molto difficile, facendo un buco in una pagnottella di pasta e
ricavandone, con una serie di gesti rapidi e decisi, un unico lunghissimo filo
(di circa cinquanta metri). Lo si avvolge a matassa e durante la bollitura
rimane incredibilmente sodo e sottile, senza rompersi né appiccicarsi. La
tecnica di confezione della pasta, passata da una fase artigianale a quella
industriale, ha fatto sorgere nella regione una serie di stabilimenti
modernissimi che fanno concorrenza ai più famosi pastifici di Napoli. Un segreto
dei loro ottimi prodotti è la farina di grano duro impiegata e il fatto che si è
tenuto conto, nella lavorazione meccanica, della antica preparazione manuale e
casalinga. Oggi queste paste sono distribuite in molte parti d'Italia e
consentono quindi di riprodurre piatti che, se non sono identici a quelli
locali, si avvicinano molto ad essi. Un altro protagonista della antica
tavola abruzzese è un minestrone quasi leggendario, certo cibo rituale, che
viene chiamato «le virtù» (che sono sette come la quantità dei vari ingredienti)
e che riunisce in un'unica preparazione generi alimentari diversi. Secondo la
ricetta canonica dovrebbero essere presenti sette legumi secchi rimasti dalla
provvista invernale, sette verdure nuove, offerte dalla stagione primaverile,
sette legumi freschi, sette condimenti, sette qualità di carne, sette di pasta
con l'aggiunta di alcuni chicchi di riso. Il tutto doveva cuocere sette ore,
alla fine delle quali il minestrone era finalmente pronto! Le «virtù» a cui va
riferito il nome sono quelle che si richiedono tradizionalmente alla donna di
casa: piatto del Calendimaggio, questo minestrone si ricollega a riti
propiziatori e pagani che riportano indietro di molti secoli; oggi si ritrova
meno ridondante, ma sempre ricco e odoroso. Tra i piatti di carne, oltre
alla porchetta, vanno almeno citate le semplici, rudi ricette dei pastori.
Antiche, addirittura millenarie, si basano sui prodotti della pastorizia, che ha
retto, con l'agricoltura, l'economia della regione fino a non moltissimi decenni
fa. La carne ovina è elemento dominante: agnello, pecora, castrato, capretto
sono cucinati, in modi diversi, in tutto l'Abruzzo. I pastori cucinavano
l'agnello a «catturo», cioè in una grande caldaia di rame sostenuta da una
catena a un treppiede in ferro che viene issato all'aperto. La carne fatta a
pezzi è messa insieme con olio, lardo, prezzemolo, salvia, cipolla, peperoncino
e fatta cuocere a fuoco lento. Si mangia col suo intingolo fragrante su larghe
fette di pane. Difficile certo ormai riuscire a trovare l'agnello a «catturo»,
più facile gustare l'agnello a «casce e ova», gratinato con uova sbattute e
formaggio o «all'arrabbiata», saltato in padella con gran quantità di
peperoncino. Il capretto invece i pastori della conca aquilana lo
"incaporchiano", cioè lo tengono chiuso in speciali recipienti di vimini che
costringono l'animale a rimanere immobile e quindi a ingrassare rapidamente.
Così, quando lo si sacrifica, la carne è di una morbidezza eccezionale.
Anche le interiora di agnello o capretto vengono impiegate per cibi robusti,
molto popolari. Tagliate a striscioline, divise a mucchietti e insaporite con
aromi vari (ma il peperoncino non manca mai), poi attorcigliate con le budella
dell'animale, vengono cucinate con olio, pomodoro, vino bianco. Con molte
varianti si mangiano in tutto l'Abruzzo, dove assumono nomi come «tuncenelle»
(Chieti), «mazzarelle» (Teramo), «marro» (L'Aquila). Normalmente non manca
il maiale, il quale dà ottimi salumi, tra i quali la «ventricina», un salame
molto aromatico e piccante. Piatto squisito è quello offerto dai «posticini»,
spiedini di agnello e maiale grigliati, spesso venduti per strada in piccoli
chioschi. Tipica anche la «capra alla neratese»; si taglia a pezzi la coscia
dell'animale, che, dopo essere stata a lungo immersa in acqua corrente, viene
bollita con erbe aromatiche. Il «coniglio alla chietina» si cuoce al forno dopo
averlo farcito con fette di prosciutto, rosmarino, pezzi di burro; il «pollo
alla Franceschiello», così chiamato a ricordo del Re delle Due Sicilie, amante
della caccia, è il pollo cotto, tagliato a pezzi, ai quali vengono uniti olio,
aromi, olive, sottaceti. Molto apprezzati fra i prodotti offerti dalla terra
d'Abruzzo sono quelli della pastorizia, soprattutto i formaggi: scamorze,
caciocavalli, pecorini, offrono forse i sapori più memorabili che si possano
riportare da un viaggio in Abruzzo, dove pure le "scoperte" gastronomiche sono
numerose, specie nelle zone dell'interno e delle montagne. Un soggiorno
sulla costa, che negli ultimi decenni ha avuto un lancio turistico notevole, fa
incontrare il sapore del mare; pesce azzurro, ma anche molluschi e crostacei e
le straordinarie minuscole triglie dette "agostinelle" che si cuociono
preferibilmente gettandole, appena infarinate, in olio bollente e gustandole
subito. I brodetti sono molto rinomati e anche qui, come in Romagna e nelle
Marche, ogni località offre la sua variazione sul tema della zuppa di pesce
adriatica. I due più famosi sono quello di Vasto e quello di Pescara: il primo è
più semplice e casalingo, quello pescarese è più raffinato e piccante. Il pesce,
durante la cottura, deve rimanere intero - dice la ricetta -, perciò attenzione
a interventi con cucchiai, mestoli ecc.; un'altra regola è quella di tenere la
teglia ("tiella") sempre coperta e portarla in tavola per scoperchiarla sotto
gli occhi e le narici dei commensali che vengono investiti dal profumatissimo
vapore del brodetto. A Pescara in particolare, ma in tutte le località del
litorale, si trovano oltre al pesce sempre fresco occasioni di incontro con
altri cibi e piatti di grande interesse come le «scrippelle in brodo o al
tartufo», le «mazzarelle d'agnello» mentre, per rimanere nell'ambito del pesce,
ricordiamo: il «baccalà mollicato», lessato parzialmente e successivamente
passato in tegame a terminare la cottura con aggiunta di aglio, olio,
prezzemolo, origano e la «coda di rospo al rosmarino», tipico piatto del
Pescarese: il pesce viene tagliato a fette che vengono cotte lentamente con
olio, aglio, rosmarino, con l'aggiunta di peperoncino. Altre specialità
apprezzate sono le «sogliole alle olive», cucinate con piccole olive cotte con
aglio, prezzemolo, succo di limone, e le «triglie ripiene» imbottite di pane
grattugiato, aglio e rosmarino tritato. E basterà poi risalire verso l'interno
della regione per scoprirne le bellezze architettoniche e paesaggistiche, la
nobiltà fiera e dignitosa, i costumi antichi e la civiltà di ogni forma di vita,
anche la più modesta perché la cucina e i vini diventino momenti importanti di
questa scoperta: ogni città, ogni paese ha le sue specialità, i suoi sapori
tramandati da secoli e rimasti ancora autentici a dispetto dell'appiattimento
tentato dall'industria. Il pasto abruzzese si chiude sempre con i dolci che
sono spesso a base di mandorle e noci: così i torroni (al cioccolato, ai fichi
secchi), i confetti, celebre specialità di Sulmona. Il «parrozzo», specialità di
Pescara, vanta una «promozione» ideata e firmata nientemeno che dal Vate
D'Annunzio. Si tratta di un dolce a base di farina, burro, uova, zucchero,
mandorle e ricoperto di cioccolato. D'Annunzio ne era ghiotto e, essendo amico
del pasticciere che lo inventò, gli trovò il nome (che deriva da pan rozzo,
perché simula il pane dei contadini nella forma rotonda e nel colore) tenendolo
a battesimo.
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